Yoga allo specchio

Secondo la definizione dell’UNESCO del 2016, pienamente inoculata nella nostra visione ricevuta occidentale a causa del cosiddetto processo di “amnesia delle fonti”, lo yoga «riguarda l’unificazione della mente con il corpo e con l’anima per permettere di raggiungere un maggior benessere mentale, fisico e spirituale». Ciononostante non si esagera mai abbastanza evidenziando che tale concezione è assolutamente ESTRANEA agli yoga premoderni riconducibili ai testi indiani secondo i quali, sintetizzando brutalmente, il fine supremo resta quello di affrancarsi dal disagio e non il benessere psicofisico. Di più: in molte declinazioni primarie dello yoga, come ad esempio quello di Patañjali, tale fine è conseguibile disunendo la componente “spirituale” da quella “materiale” (sotto la quale si trova, oltreché la materia grossolana, anche quella sottile/mentale).

Inoltre oggi quando si parla di yoga non possiamo fare a meno di pensare agli āsana e alle pratiche fisiche, dimenticandoci che lo haṭhayoga, ossia quel fascio di tradizioni premoderne dove prevalgono le tecniche fisiche, ha iniziato a svilupparsi e poi ad affermarsi, soltanto fra il X e il XVIII secolo (quasi un millennio dopo Patañjali).

Cosa ci suggerisce questo “gap”? A mio avviso non tanto una degradazione dello yoga quanto piuttosto una TRASFORMAZIONE, anche profondissima, di questo fenomeno che non ha mai smesso di mutare sia per quanto riguarda gli strumenti e i fini che si pone (prima la liberazione definitiva dal dolore e oggi in primis il benessere psicofisico) sia per quanto riguarda gli attori sociali (prima elitario appannaggio di asceti maschi oggi fenomeno di massa appannaggio di tutti).

Dunque, onestamente, di quale yoga “tradizionale”, “immutabile” o addirittura “migliore” si parla?

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